Annalisa Sonzogni

Teorama

by Régis Durand

Le fotografie di città sono affascinanti per molti versi e lo sono da sempre, fin dagli esordi della fotografia. Lo si può ovviamente spiegare dicendo che esse costituiscono una documentazione imprescindibile come, per esempio, le straordinarie fotografie di Marville in una Parigi sconvolta dagli interventi urbanistici di Haussmann. Ma a prescindere da questo aspetto documentario, tutti sanno che il loro fascino sta soprattutto nel fatto che la città è luogo di incontro di ogni sorta di percorso e di esperienza, "scuola di mondo" per eccellenza, da cui lo spirito riparte verso altri territori e altre esplorazioni.1

Persino nelle fotografie maggiormente contraddistinte da toni pittoreschi e nostalgici, rimane traccia di quella mobilità essenziale, di quella miriade di esperienze individuali di cui le fotografie offrono un rilievo troppo carico, talvolta appena leggibile. Per non parlare invece delle opere in cui si è tenuto conto con estremo rigore, del lavoro analitico: le vedute dei sobborghi poveri di Parigi nell'opera di Atget; i segni urbani di Walker Evans; le "città fungo" tipiche di Lewis Baltz; gli strati storici sottilmente palesati da Thomas Struth; o in modo più teatrale forse, ma con estrema chiarezza, da Gabriele Basilico e come reinventate, ricomposte, mediante inquadratura e colore, in Stéphane Couturier.

Sono i tipici esempi che vengono in mente guardando le fotografie di Annalisa Sonzogni con la sensazione, al tempo stesso, di avere di fronte qualcosa di molto diverso. Come lascia intendere essa stessa, il fatto che si tratti di vedute notturne è indice di un capovolgimento. Non che manchino di precisione o che non ci facciano conoscere nulla della città e nessuno si sognerebbe mai di affermare che non ci sia l'elemento analitico. C'è in realtà, ma appare spaesato, in un certo modo snaturato. La visione notturna, come d'altro canto l'eccessiva luminosità del giorno, "cinematizza" (per riprendere il termine di Smithson) la realtà. Appare qualcosa che ha della fiction, della narrazione, se non addirittura del teatro. Tutto potrebbe finire per assumere le sembianze di una "scena teatrale". La storia recente della fotografia è anche in questo caso prodiga di esempi sul mistero notturno della città, da Robert Adams a Jeff Wall, da Brassai a Ruth Blees Luxemburg.

In questa tradizione Annalisa Sonzogni si inserisce perfettamente ma come d'altronde negli altri artisti sopra citati, in essa si nota uno scollamento iniziale, un'inclinazione impercettibile ma sufficiente a determinare una lenta deriva verso un territorio che a lei sola appartiene. Definire questo nucleo costitutivo, che è più un principio che un territorio, è un arduo compito.

E se ci lasciassimo guidare da ciò che lei stessa, enigmaticamente, dice di questa tradizione esoterica che parrebbe unire le tre città fotografate, Torino, Lione e Praga? Non avendo personalmente al riguardo che scarse conoscenze e ancor minore propensione, preferisco pensare di dovermene servire come di una metafora, di un informatore, per cercare di tradurre quello che è in gioco in questo lavoro.

La prima osservazione da fare è che non è tanto il paesaggio urbano notturno a essere rappresentato, quanto le luci di cui è costellato (e da cui è trasformato). Finestre illuminate, solitarie o numerose e disseminate a caso sulla facciata, invitano a pensare agli sconosciuti che vegliano e alle loro imprevedibili occupazioni. Che sia questa la metafora visiva della rete mistica più sopra evocata? E' più facile che si tratti dell'immagine di un capovolgimento: l'esterno invita a riflettere sull'interno, la notte sulla veglia, l'apparenza sensibile sullo spirito. Di tale alchemica trasfigurazione, ritrovo la formula nell'altra rappresentazione enigmatica dell'atto di creare, quella dell'atelier di Francis Ponge. L'atelier per lui è prima di tutto una sorta di coda, o di contesto, a ogni poesia o insieme di poesie, è colui che relaziona sul lavoro così come viene svolto, con le sue varianti, i residui, i ripensamenti, le letture che l'hanno accompagnato ecc. Un'immagine, in un certo senso, della fabbrica della scrittura. E' evidente che non si tratta solo di archivi della creazione. L'atelier, in fin dei conti, resterà sempre il luogo di una metamorfosi incomprensibile, altrettanto incomprensibile della metamorfosi della vita stessa. Ponge sogna gli atelier, ora in senso fisico, distribuiti nella città, celle di persone deste, insoliti bozzoli in cui si coglie una "immobilità patetica di ninfa", sul punto di trasformarsi.2

Immobilità relativa, poiché si tratta comunque di una gestazione, di un cambiamento di stato. Che tra l'altro va anche rapportata alla dimensione di ciascuna città, in cui miriadi di analoghe celle dimostrano che la vita dello spirito continua nel cuore della notte. Pierre Huyghe, in un'opera presentata nel Padiglione Francese alla Biennale di Venezia del 2001, ne ha fornito un'immagine splendida, quella di facciate di edifici le cui finestre si accendono e si spengono a caso, con un ritmo accelerato nella notte, regolate da un computer, in un prodigioso condensarsi del tempo.

Sulle serene vedute di Annalisa Sonzogni, ciascuno proietta una lettura differente, che altro non è che il riflesso dei propri desideri e delle proprie angosce. Alcuni le potrebbero definire rasserenanti, nel caso in cui, per esempio, evocano la gioia pacata di coloro che condividono un credo comune, un'iniziazione segreta, o la semplice contemporaneità dell'esistenza nel particolare tempo della notte. Altri vi potrebbero cogliere inquietudine e solitudine. Ma comunque sia, questi solitari insonni portano testimonianza di una presenza nell'atelier, in questa casa paradossale che è contemporaneamente luogo di rifugio, di mutazione, di movimento. Nel saggio citato all'inizio, Peter Sloterdijk usa un termine svevo, Einhausung, che assimila al greco oikeiosis, per esprimere il fatto di sistemarsi in una casa, di traslocare e che lui stesso abbina al concetto di "venire al mondo", "la nascita permanente come codice di mobilità della creatura umana che non è stata fissata a sproposito".3 Ma la sistemazione non può non prescindere dall'esodo, l'occupazione di un territorio dalla migrazione, l'immobilità dalla metamorfosi. Ciò che noi troviamo in queste fotografie, è una sorta di immagine di una certa sospensione, di una certa attesa tra due stati, due movimenti, due modi di stare al mondo - un codice di intelligibilità, più che un codice di mobilità, ad uso e consumo di coloro che sanno restare vigili.

 

NOTE

1- Mi avvalgo su questo punto (e ancora in seguito) della pregevole analisi di Peter Sloterdijk in "Tournant et révolution--Discours sur la pensée heideggerienne du mouvement", in Essai d'intoxication volontaire , Hachette Littératures, 2001, p. 273-335

2- Francis Ponge, Oeuvres complètes, Bibliothèque de la Pléiade, Gallimard, 2002 (1948), p. 567-570

3- op.cit. , p. 307