Annalisa Sonzogni

Identikit IV

di Roberta Valtorta

Quando uno spazio viene rappresentato fotograficamente, esso non è più solo una rappresentazione ma diventa una realtà in sé: una nuova realtà autonoma, con limiti ben determinati, luci e rapporti interni stabiliti, che si dispone su una superficie bidimensionale dotata di una propria grandezza, e lì rimane, statica. La scena è ripresa da un punto di vista preciso, quello e non un altro, ed è stretta dentro una inquadratura molto ben determinata, quella e non un’altra.  Quando questa fotografia, questo oggetto bidimensionale che rappresenta uno spazio, viene installata in un altro spazio, i due spazi – quello rappresentato e quello “reale” – entrano in una relazione immediata e visivamente potente che li rende improvvisamente necessari l’uno all’altro, ma al tempo stesso diventano incerti, oscillanti, spaesati. Si legano tra loro, eppure uno di essi è uno spazio “virtuale”, è “solo” una fotografia, l’altro è uno spazio “reale”, “vero”. Il noto, classico avvertimento di Magritte “ceci n’est pas une pipe” è lì, evidente, davanti ai nostri occhi: “attenzione, questo non è uno spazio vero, è una fotografia”, eppure la nostra percezione instaura tra i due spazi di diversa natura un rapporto alla pari, come naturale.

A partire dal 2010 Annalisa Sonzogni lavora ad approfondire questo complesso rapporto tra spazio e rappresentazione dello spazio usando sia la fotografia sia l’installazione. In particolare, va precisato,  l’artista sceglie lo spazio architettonico. E lo fa immedesimandosi sinceramente nella questione, buttandosi anima e corpo  in media res. Nel 2010, con Passeggeri,  installa in ambienti della Casa del Fascio di Como fotografie che ha realizzato nello stesso luogo, e nel 2014, con Synopticon, installa nei saloni della Pinacoteca di Brera immagini da lei realizzate nello stesso luogo. Nella serie in progress Identikit, iniziata nel 2014 ma già annunciata nel metodo in Lilian Baylis School un anno prima,installa invece fotografie di certi spazi in spazi altri aventi con gli spazi fotografati assonanze di forme, colori, strutture. In questo modo il livello di complessità del discorso aumenta e la relazione tra i vari elementi visivi si fa più ambigua, nel senso etimologico del termine: può essere vista da più parti. Infatti l’installazione si offre all’osservatore in due differenti modi: la fruizione diretta nel vero e proprio spazio tridimensionale che accoglie dentro di sé anche le immagini bidimensionali; e la visione dell’installazione fotografata, e in questo caso avremo fotografie che rappresentano lo spazio “vero” all’interno del quale si trovano anche le fotografie installate. Il pensiero corre in questo caso alla nota sequenza fotografica di Duane Michals  Things are Queer, che conduce l’osservatore da uno spazio fotografico a uno spazio “reale” e poi ancora a uno spazio fotografico che però sembra uno spazio “reale” e avanti ancora in un percorso straniante potenzialmente senza fine.

Annalisa Sonzogni predilige spazi complessi, con più pareti, finestre, angoli, colori diversi spesso netti e ben differenziati tra loro, utilizza talvolta anche specchi per creare raddoppiamenti, rimandi ed effetti di moltiplicazione delle strutture, come in un caleidoscopio. Non si pensi però a installazioni e immagini che producono un senso di caos o di confuso accavallamento di visioni e geometrie. Al contrario, l’artista punta lucidamente a ricreare spazi credibili, assai articolati ma ben controllati e ordinati quasi come dipinti della stagione astratta o, più esattamente, costruttivista: progettati, proprio come accade nell’architettura. Il suo lavoro è infatti segnato in modo determinante dal rapporto tra fotografia e architettura, mette in discussione l’impianto prospettico della scena ma in fondo lo rispetta e lo riprogetta con decisione e chiarezza, ponendo in dialogo realtà diverse, fisiche e virtuali come si diceva, sulla base delle quali possono nascere narrazioni diverse, sia di tipo visivo, sia di tipo architettonico Va poi sottolineato che Sonzogni sceglie sempre spazi vissuti, nei quali è possibile leggere tracce di storia e di vite umane che di lì sono passate: qua e là dagli ambienti  affiorano dunque frammenti di memorie individuali e collettive, a dimostrazione che l’architettura è qualcosa di vivo, è un organismo nel quale il visitatore-osservatore sente il peso del tempo, e sente il proprio vissuto misteriosamente mescolarsi a quello del luogo.